Torna alla memoria una vecchia questione ancora non risolta sulla qualità delle acque dell’Etna, ed in particolare sulle conseguenze che potrebbe avere sulla salute l’alta concentrazione (non di poco fuori dai parametri europei) di alcuni minerali, tra cui il vanadio. E se da una parte l’acqua dell’Etna è stata sempre utilizzata dagli abitanti del vulcano per uso potabile, senza gravi conseguenze ad essa direttamente riconducibili, dall’altro lato emerge una certa preoccupazione, o quanto meno, il desiderio di saperne di più, viste le comunicazioni che hanno formulato le amministrazioni dei Comuni di Bronte, Adrano, Biancavilla, Ragalna, Belpasso, Camporotondo Etneo, San Pietro Clarenza, Santa Maria di Licodia, Mascalucia, Gravina e Pedara. Con un’ordinanza i sindaci hanno comunicato ai propri cittadini che l’acqua dei loro rubinetti «non è potabile», o meglio, «di utilizzare l’acqua fornita dall’Acoset, e proveniente dalla sorgente Ciapparazzo in territorio di Bronte, esclusivamente per uso igienico sanitario». Le ordinanze sindacali non sarebbero altro che «atti dovuti», vista la comunicazione dell’Acoset che il 7 aprile scorso aveva trasmesso all’assessorato Regionale alla Sanità l’istanza di proroga del provvedimento di deroga per il parametro vanadio presente nelle acque potabili. La procedura per la richiesta delle deroghe non è una novità. Va ormai avanti da diversi anni e adesso, scaduta l’ultima deroga finora concessa, si attende la nuova, che dovrebbe, essere l’ultima possibile. La materia è regolamentata dal decreto legislativo del 2 febbraio 2001. In passato, come confermano dalla Regione, «l’Acoset e altri piccoli gestori dell’area etnea hanno ottenuto due deroghe per i valori di parametro relativi al vanadio e al boro, accordate nel 2005 e nel 2007. Tale proceduta prevede l’impegno dei gestori per adottare misure atte a far rientrare i valori entro i limiti previsti dalla legge ed entro i tempi fissati dai provvedimenti di deroga (2005 e 2007). Gli stessi gestori avrebbero anche dovuto curare altri adempimenti che solo in minima parte sono stati assolti». Attualmente invece boro, ferro, manganese e vanadio, i cui massimi valori consentiti sono rispettivamente di 1000 microgrammi al litro, 200, 50 e 50, nella provincia di Catania hanno fatto registrare risultati ben più alti. «In 131 campioni su 478 – spiega il prof. Riccardo Vigneri dell’Istituto di Endocrinologia dell’Università di Catania – il massimo valore riscontrato del boro è di 2100 microgrammi al litro. In 92 campioni su 280 il massimo valore osservato del ferro è di 5300 microgrammi/litro. In 87 campioni su 264 il massimo valore del manganese è di 2600, mentre per il vanadio in 193 campioni su 280 (in più della metà il valore ha superato i 50microgrammi/litro) ed il valore massimo riscontrato è stato di 179 microgrammi al litro». Fuori scala risulta anche il radioisotopo naturale Radon, il cui valore massimo nell’acqua potabile è di 11 Bq/L, ma nell’acquifero etneo in 48 sorgenti su 119 il valore massimo rilevato è stato di 57 Bq/L). Questi i dati raccolti dalla ricerca, Papillary thiroid Cancer incidence in the Volcanic area of Sicily, condotta da quattro Istituti di endocrinologia della Sicilia (le Università di Catania, Palermo e Messina e l’Ospedale Cervello di Palermo) in collaborazione con l’Arpa (Agenzia Regionale per la protezione Ambientale) ed il centro di Epidemiologia e statistica dell’Inserm di Parigi. Naturali quindi le perplessità sulla questione. Può una deroga rendere l’acqua potabile? Il vanadio rappresenta un reale problema per la nostra salute, o è tutta una questione burocratica? Dal punto di vista della salute della popolazione etnea, l’unica «anomalia» registrata negli ultimi anni nell’area pedemontana, e riscontrata anche in altre aree vulcaniche, è la maggiore incidenza del tumore alla tiroide, comunque considerato curabile e non particolarmente aggressivo. I valori fuori scala nell’acqua etnea rendono l’acqua dell’Etna, l’indiziato numero uno, ma tutto è ancora da dimostrare. Secondo Rocco Favara, dell’Istituto di geofisica e vulcanologia di Palermo, «il ruolo rilevante dell’Etna nel sistema di approvvigionamento idrico della Sicilia avrebbe dovuto comportare una serie di verifiche sulla qualità delle acque, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, visto che le acque dell’Etna nelle zone a valle sono soggette a degassamento e rilascio di diverse componenti da parte del Vulcano». Ma quando è sorto il problema dei limiti? «Il problema – spiega il prof. Salvatore Sciacca, ordinario di Igiene generale e applicata dell’Università di Catania – è sorto nel 1978 quando il Ministero della Sanità ha dato incarico per un esame epistemologico. Lo studio – continua Sciacca – venne condotto dall’Istituto di Igiene e medicina preventiva di Catania che completò l’indagine tra il ’94 ed il ’95. L’esame epistemologico non dimostro che il vanadio avesse effetti negativi, anzi si notò che tra queste popolazioni era molto bassa la percentuale di diabetici. Tra il 2004 ed il 2005 l’Istituto superiore di sanità emise l’esame tossicologico sull’acqua etnea. Ma secondo tutte queste indagini l’acqua etnea non era causa di danni alla salute». L’importanza di tali studi vengono confermati dalla stessa Acoset. «Noi ci siamo occupati della qualità delle acque per mestiere e in solitudine – spiega Pippo Giuffrida presidente Acoset, specificando che si tratta di un problema complesso, molto più ampio di quel che sembra, che deve essere trattato con le dovute cautele – Quando fu scoperta la presenza del vanadio ci fu una grandissima riunione in Prefettura, perché ci si poneva il problema se dare l’acqua o no. Quindi iniziammo a fare una serie di studi. Ci occupammo di un lavoro ingegneristico, e legato anche ad un brevetto per la riduzione del vanadio. Successivamente gli studi dell’istituto superiore della Sanità, che finanziammo – puntualizza Giuffrida – fecero capire che le dosi di vanadio assunte non erano così rilevanti per la salute. Ma il problema è capire anche che impatto tutte queste sostanze possono avere sulle attività economiche, sull’agricoltura e sui prodotti». Sullo stato dell’iter burocratico la Regione puntualizza che «nessuna deroga può essere concessa dall’Assessorato della Salute fintanto che non si sarà espresso il Consiglio superiore di Sanità e fintanto che il Ministero della Salute non avrà emesso un apposito decreto con il quale la Regione siciliana viene autorizzata ad accordare la deroga». La pratica, partita da Catania il 7 aprile scorso, è stata trasmessa al Dipartimento della prevenzione sanitaria del Ministero della salute che ha convocato una riunione per il 18 giugno scorso. «Nel corso della riunione – spiegano dalla Regione – il Ministero della salute e l’assessorato regionale competente formalizzarono all’Acoset e all’Asp di Catania la necessità che l’Acoset integrasse l’istanza. Le integrazioni giunsero alla Regione lo scorso 29 giugno e l’indomani furono trasmesse al Ministero della Salute per il successivo inoltro al Consiglio superiore di Sanità». Dalle informazioni fornite dagli uffici di Palermo si capisce che «all’eventuale riconoscimento della deroga dovranno seguire, da parte del gestore, interventi concreti, tangibili e documentati ai fini dell’abbattimento dei valori di parametro per l’elemento vanadio». In caso contrario «le acque della sorgente Ciapparrazzo – concludono dalla Regione – non potrebbero essere destinate al consumo umano o, in alternativa, la popolazione dovrebbe essere invitata a non utilizzarle come acqua di bevanda».
Sonia Distefano fonte “La Sicilia” del 18-07-2010