Il caso è chiuso. Se ci limitassimo al sussidiario del buon investigatore – magari arricchito da qualche nozione da fiction televisiva – la conclusione sarebbe cinica, ma adamantina. Ci sono le vittime: un morto e un ferito, quest’ultimo non in gravi condizioni; c’è l’arma del delitto: un coltello a scatto; c’è l’omicida: reo confesso, s’è costituito pochi minuti dopo il fatto; c’è la ricostruzione della dinamica: decine e decine di testimoni; è c’è il movente: ancora non chiarissimo, ma legato a quelli che gli uomini di legge liquidano come “futili motivi”. Ma questa, purtroppo, è un’altra storia. E’ la storia di un delittaccio con i pantaloncini corti. I protagonisti sono tutti ragazzi, anzi praticamente bambini. Un tredicenne (Matteo Galati) è stato accoltellato a morte da un sedicenne, B.R., che nella sua furia ha pure ferito alla mano un altro ragazzino, coetaneo della vittima. L’assassinio è avvenuto a Bronte, aristocratico paesone ai piedi dell’Etna, nei dintorni di una piazzetta del centro storico, poco prima della mezzanotte di domenica. La ricostruzione dei carabinieri (indagano la Compagnia di Randazzo e la Stazione di Bronte) è chiara. Alle 23:45 di domenica Matteo e il suo assassino con i pantaloncini corti si trovano in piazza De Gasperi, un microcosmo di tranquillità paesana alle spalle del centro storico, raggiungibile inerpicandosi nella strettissima via Isonzo. Decine di altri giovani sono lì fuori, a godersi una delle tante serate di quelle estati che non finiscono mai. In giro ci sono anche molti abitanti del quartiere, decine di persone anche sui balconi che s’affacciano sulla piazza. Gente normale, gente perbene, Brontesi che – da utilizzatori finali della meravigliosa frescura di montagna – diventano i testimoni di un delitto semplice e agghiacciante. I due ragazzini cominciano a discutere, quasi subito animatamente. Il più piccolo è un ragazzo di famiglia normale (padre e fratelli carrozzieri, madre casalinga), il più grande i carabinieri lo definiscono “un sedicenne che ha maturato la sua adolescenza in un ambiente familiare non proprio dei più opportuni”. Che, tradotto dal burocratese, significa che è figlio, incensurato, di un padre in carcere per droga e di una madre anch’essa arrestata in passato, ma adesso a piede libero, in un’abitazione nei pressi di piazza Rosario. “Vieni qui, andiamo da soli, dice il sedicenne. Fanno appena pochi metri, appartandosi in un ripido vicolo, via Pierluigi da Palestrina. Non esita nemmeno un attimo. Matteo: lo segue con l’innocente energia di un ragazzino che vuole dominare la sua vita. Grida, qualche spintone: la colluttazione dura pochi secondi, perché il sedicenne estrae dalla tasca un coltello con una lama lunga 5 centimetri – uno di quelli multiuso a scatto, che si trova con facilità in commercio – e tira un fendente che colpisce il tredicenne all’emitorace sinistro, molto vicino al cuore. Sulla scena del delitto, nel frattempo, irrompe un altro ragazzino; un tredicenne, A. S., amico di Matteo. Prova ad aiutarlo, ma rimedia una coltellata al polso. A questo punto il baby-accoltellatore fugge a gambe levate, riprende uno scooter lasciato in piazza e lascia la scena dell’omicidio. “Vi prego, aiutatemi. Per favore, non voglio morire”. Secondo i primi soccorritori sono state queste le ultime parole dell’ultima estate di Matteo. Il tredicenne riesce a risalire dal vicolo, torna in piazza. Si appoggia a un palo. E’ ferito, perde tantissimo sangue. Nel frattempo decine di altri ragazzini e di abitanti del quartiere intervengono. Entrambi i feriti vengono trasportati all’ospedale di Bronte. Matteo muore poco dopo la mezzanotte: decisivi il punto della ferita e il sangue perso, inutili i tentativi di salvarlo. L’autopsia sul corpo dell’adolescente dovrebbe essere effettuata oggi. Il coetaneo ferito viene trasferito al “Cannizzaro” di Catania. La coltellata gli ha danneggiato itendini della mano destra. I medici lo hanno sottoposto a un intervento chirurgico, adesso è ricoverato nel reparto di Chirurgia plastica. Intanto l’omicida passa il quarto d’ora più lungo della sua giovanissima vita. Capisce quello che ha appena fatto, ha paura ma sa anche che l’hanno visto tutti. E prende l’unica saggia decisione di una notte sciagurata: costituirsi ai carabinieri di Bronte. “Ho fatto una fesseria. Non volevo ucciderlo, quel coltello l’ho uscito per difendermi”, avrebbe detto – quasi in trance – ai militari che lo interrogavano, prima di trasferirlo all’alba, al centro di prima accoglienza di via Franchetti, su disposizione della procura dei Minori etnea. L’assassino credeva di aver solamente ferito Matteo. I carabinieri stanno indagando per accertare se l’omicida si sia armato del coltello in vista dell’incontro. Fin qui la ricostruzione. A cui manca un tassello: qual è il movente del delitto? Inizialmente s’era parlato di una ragazzina di 13 anni contesa fra i due. “Motivi legati alla frequentazione di una coetanea del luogo”, recitava il primo comunicato ufficiale dei carabinieri. Ma nel corso della giornata ha preso corpo un’altra chiave di lettura: i carabinieri hanno accertato che nei giorni scorsi la vittima aveva avuto un alterco con un coetaneo ( forse questo si dovuto a una ragazzina), che si sarebbe rivolto al sedicenne chiedendo il suo appoggio. “Ma i due ragazzini avevano già chiarito tutto – raccontano i ragazzi di piazza de Gasperi – e non c’era più bisogno di niente”. Non è più un duello rusticano per contendersi l’amore, ma una resa dei conti. Tanto stupida e inutile da rendere ancora più terribile la morte che ha tranciato la lunga e spensierata estate di Matteo. L’ultima.
Mario Barresi fonte “La Sicilia” del 03-08-2010