Fu la prima vera applicazione del protocollo Antoci sui Nebrodi: un’interdittiva antimafia nei confronti di un’azienda agricola. Una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa siciliano conferma l’iniziale efficacia dello strumento introdotto dall’ex presidente del Parco dei Nebrodi, in seguito aggirato dai mafiosi con il metodo dell’intestazione delle società a prestanome. Ma i giudici ora descrivono il sistema di «spartizione fraudolenta dei terreni» allo scopo di accaparrarsi i contributi europei. La sezione giurisdizionale del Cga (presidente Claudio Contessa, consigliere estensore Nino Caleca, consiglieri Nicola Gaviano, Carlo Modica de Mohac e Giuseppe Verde) ha respinto il ricorso di un’azienda agricola avverso la sentenza con cui il Tar di Catania aveva confermato l’interdittiva emessa il 14 dicembre 2015 dalla Prefettura di Messina. Il provvedimento si basò sulle informative di Questura e Comando provinciale dei carabinieri. Il salto di qualità fu costituito dal fatto che l’interdittiva, per il Cga, «non costituisce il frutto di una isolata attività investigativa, ma si inquadra in una più ampia investigazione che punta a verificare un fenomeno complesso e grave che viene usualmente definito “mafia dei pascoli”».
Nelle 15 pagine di sentenza, il Cga smonta le tre principali tesi della difesa dell’imprenditore dei Nebrodi (sostenuta dall’avvocato Dario Sammartino), a partire dai legami con la criminalità organizzati, definiti «una mera congettura, non sostenuta dall’analisi economica della situazione». Il Cga, oltre a richiamare la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato (secondo cui «il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale»), aggiunge una descrizione della «modalità», definita «estremamente sintomatica», con cui avveniva l’aggiudicazione dei terreni pubblici. Una «spartizione fraudolenta», alla base della quale c’era «una artata “parcelizzazione delle istanze”». In pratica, «ogni istanza ha ottenuto il lotto di terreno richiesto» e «per la quasi totalità dei lotti non si è potuto scegliere fra differenti istanze». Inoltre, «nelle offerte “segrete” i valori in aumento rispetto a quelli fissati dall’azienda sono irrisori e vanno addirittura da un euro a dieci euro, nella stragrande maggioranza dei casi». Dunque, anche per il Cga siciliano il fatto che «ogni partecipante alla licitazione privata abbia ottenuto il lotto di interesse richiesto pagando solo pochissimi euro e senza dover competere con altri istanti, difficilmente può considerarsi una circostanza casuale». Per i giudici è «molto più probabile» che sia «il frutto di un preciso accordo fra i partecipanti» con un duplice scopo: l’«individuazione dei lotti da assegnare a ciascuno» e l’«esclusione di ogni possibile concorrenza». In sintesi: più che il «frutto di un benevolo destino», uno «scientifico disegno spartitorio», che è «indizio rilevante» sia di «cointeressenze economiche», sia di «rapporti più che fiduciari» fra i diretti interessati.
Nel ricorso l’azienda sostiene di rientrare nella «parte sana della popolazione locale», ma la sentenza riassume i legami dei soci amministratori, madre e moglie di un soggetto su cui emergono «specifici elementi» (precedenti penali e frequentazioni con condannati per mafia) al di là della «asserita sporadicità degli incontri». Infine, il Cga conferma il principio secondo cui l’interdittiva antimafia determina in capo al soggetto che ne è colpito una particolare forma di temporanea incapacità ex lege» e dunque il destinatario «per il periodo della sua efficacia, non può avere alcun rapporto di carattere economico con la pubblica amministrazione». La difesa dell’azienda sosteneva che al provvedimento della Prefettura «non potrebbe conseguire il recesso dalla concessione» dei fondi europei, ma i giudici siciliani confermano la linea affermata dal Consiglio di Stato: le facoltà di revoca e recesso in conseguenza all’interdittiva, infatti, «si applicano anche quando gli elementi relativi ai tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente» alla stipula del contratto o alla concessione. Mario Barresi Fonte “La Sicilia” del 13-07-2020