Chi non crede all’esistenza del Covid dovrebbe farsi un giro in uno dei pronto soccorso dedicati alla lotta al virus. Entrare e capire come sia peggio di un girone dell’inferno descritto da Dante. A me è accaduto. Per necessità e non per lavoro. Sono un giornalista che ha provato il Covid, lo scorso 19 novembre. Quando, trovandomi all’ospedale Cannizzaro per lavoro, accuso un malore e senso di stanchezza. Mi reco al pronto soccorso e, da prassi, appena entrato, mi effettuano il tampone rapido per il Covid. L’esito arriva subito: positivo. Subito vengo trasferito nell’ala riservata al Covid e iniziano una serie di esami. Prelievi, emogas, elettrocardiogramma, tac, oltre al tampone molecolare che darà il risultato definitivo. Finisco attaccato all’ossigeno perché la mia saturometria (il valore di ossigeno nel sangue) è attorno ai 92-93 e dovrebbe essere 99. Vedo gli infermieri, gli inservienti e una dottoressa che si prendono cura di una ventina di malati tutti contagiati. Molti sono anziani e le loro condizioni sono molto serie. Tutti hanno l’ossigeno attaccato a palla. I letti sono tutti pieni, molti malati sono in barella e gli arrivi sono continui, ma il personale, con schemi collaudati e grande senso del dovere, assiste i pazienti incurante di quello che accade intorno. La sera, dopo circa 7 ore, vengo dimesso con una cura da seguire a casa. Sono asintomatico e mi ritengo fortunato. Ma quanto visto dentro quei locali sarà indimenticabile. Scene di un film vissute in prima persona. E’ stato drammatico vedere quei lavoratori non fermarsi e non conoscere mai il loro volto.
Non essere neanche in grado di potergli dire grazie se li rincontri. Nascosti in quelle tute da astronauti. Ciccio, Maurizio, Alessandro, alcuni di loro il nome lo avevano scritto sulla tuta. Ma erano lì, a compiere fino in fondo il loro dovere, a fare fede al giuramento di Ippocrate, a rischiare la loro vita. Eroi che presto saranno dimenticati. Appena tutto passerà, in pochi ricorderanno il loro operato e i loro volti celati dalle maschere. Come quella esile dottoressa che mi ha seguito, che non stava mai ferma e, oltre a seguire i tanti pazienti, sbrigava altre mille cose. Chissà se un giorno la incontrerò, non ho mai visto il suo volto, né sentito il suo nome, ma esiste. Come il Covid, che non si vede ma c’è. E negarlo è un’offesa a chi è morto. Leggo sul referto che la dottoressa si chiama Alice. A lei, come a tutti coloro che in questi mesi hanno svolto un lavoro straordinario e unico, voglio dire semplicemente GRAZIE. R. P. Fonte “La Sicilia” del 24-11-2020