Quando la giustizia è lenta e però, dichiarando di non potere condannare l’imputato per sopravvenuta prescrizione, riconosce ugualmente la sua responsabilità in ordine al reato contestato. È successo a Catania e ci sono voluti 15 anni, dalla prima denuncia alla sentenza di appello, per stabilire definitivamente la responsabilità di un doppio furto di identità elettronica. Ciò grazie a una sentenza della terza sezione penale della Corte d’appello etnea con la quale, paradossalmente, dichiarando estinto, i giudici hanno però confermato la sentenza di primo grado. Con questa, il giudice della seconda sezione penale del tribunale di Catania aveva condannato a sei mesi di reclusione, pena sospesa, Marco Crimi, oggi Oss (operatore socio-sanitario) in Toscana, 39enne, nato a Bronte e residente a Randazzo, difeso dall’avvocato Nunzio Calanna. A distanza di sei anni dalla prima sentenza di colpevolezza, i giudici di appello hanno esaminato, puntualmente, i motivi del ricorso della difesa, ricorso che hanno di fatto respinto, contestandoli uno ad uno. Ma, nello stesso tempo, hanno confermato le statuizioni civili della prima sentenza e hanno condannato l’imputato alla rifusione delle spese in favore della parte civile, cioè la vittima. Quindi, il caso non è chiuso, se non per il profilo penale della vicenda, che si esaurisce con una delle decisioni più odiose perché, in pratica, applicare la prescrizione significa, quasi sempre, fare una dichiarazione di resa da parte della giustizia, che non è riuscita ad arrivare alla decisione finale nei tempi consentiti. Mentre rimangono gli interrogativi circa lo stentato avvio dell’inchiesta e la lentezza di diversi passaggi del procedimento. I giudici della terza sezione penale della Corte di appello hanno sintetizzato, nella sentenza, tutti i passaggi della vicenda, dalla denuncia della vittima al loro pronunciamento. A cominciare dalla querela che Maria Pia Risa, pedagogista e giornalista, allora trentacinquenne, nata a Bronte e residente a Randazzo, presentò alla polizia postale di Catania, nel giugno del lontano 2009.
La Risa, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Cristiano, denunciò che qualcuno aveva violato il proprio profilo su Facebook e rubato la mail associata, aveva cambiato la password ed estromesso, di fatto, lei dalla gestione del social e dalla casella di posta elettronica. Successivamente, l’allora ricercatrice universitaria denunciò come, a suo nome, qualcuno si abbandonasse a espressioni crude e scurrili. Tanto che, nella sentenza, queste vengono definite «frasi di contenuto ambiguo e di significato erotico». La vittima ha rilevato, in ogni sede, il danno che ha dovuto subire e il disagio patito, nel paese di residenza ma anche e soprattutto negli ambienti universitari, per quelle espressioni sboccate che apparivano come sue. Grazie al gran lavoro svolto sull’acquisizione dati, la polizia postale individuò tre “indirizzi Id”, cioè dati di una connessione a Internet, uno dei quali utilizzato per connettersi sia sul profilo Fb della querelante che sul suo indirizzo di posta elettronica, e altri due utilizzati per connettersi una volta a Fb e l’altra alla posta. Così fu accertato che l’indirizzo Id, utilizzato per entrambe le connessioni, apparteneva a una piccola azienda di Randazzo presso la quale il giovane imputato aveva lavorato per qualche tempo; mentre l’altro indirizzo Id, utilizzato solo per accedere al profilo Fb, era abbinato all’utenza telefonica fissa intestata allo stesso imputato. I tre collegamenti abusivi che, secondo la sentenza, portano a Marco Crimi furono rilevati tra il 17 e il 21 novembre del 2010. Il collegio giudicante ha ritenuto più che sufficienti gli elementi di accusa a carico dell’imputato; ha, di fatto, rigettato il ricorso della difesa e ha motivato ampiamente la propria decisione. Fonte “La Sicilia” del 28-01-2025