BRONTE. Tutti conoscono il brand “pistacchio di Bronte”, ma pochissimi conoscono il prodotto. Quanti hanno mai visto i grappoli di pistacchio sugli alberi nel mese di settembre? Quanti conoscono le fasi di coltivazione, raccolta, lavorazione e trasformazione del pistacchio di Bronte dop? Quanti sanno che una piccola pianta, prima di fruttificare, deve avere sette anni di vita, che esistono diverse “cultivar” il raccolto si fa ogni due anni o che il pistacchio in guscio si chiama “tignosella”? Eppure basta fare una passeggiata tra i pistacchieti di Bronte tra fine agosto e tutto il mese di settembre, il momento della raccolta. E’ questo il nuovo livello della sfida sul mercato dell’oro verde di Bronte: farsi conoscere. Una “comunicazione” che non può fermarsi solo al prodotto finale, ma che dovrebbe comportare di conseguenza anche la conoscenza del territorio. Alzare l’asticella per “comunicare il proprio saper fare” è, per i produttori di pistacchio di Bronte, l’unica arma per combattere lo strapotere dei colleghi greci, californiani, iraniani e turchi. Come si sa, infatti, il pistacchio di Bronte rappresenta sul mercato mondiale, appena l’uno per cento della produzione e, ovviamente costa qualche euro in più di più di quello “estero”. In quella manciata di euro c’è, però, tutto il peso qualitativo di un prodotto utilizzato dalle pasticcerie più raffinate e conteso dagli chef stellati. «Noi lo vendiamo nei bar e nelle pasticcerie siciliane più attente alla qualità – dice Nunzio Cartillone, a capo di un’azienda familiare che produce 15mila kg di pistacchio ogni due anni – ma il nostro pistacchio va anche in Giappone e qualcosa anche in Germania, Francia, Stati Uniti. In realtà in questi Paesi utilizzano più il prodotto trasformato, soprattutto le gelaterie che acquistano il preparato, sono in pochi a comprare direttamente la materia prima». Cartillone, 42 anni ha raccolto in qualche modo l’eredità del padre il quale, però, il pistacchio lo vendeva solamente. «Mio padre – racconta – lo vendeva ai commercianti, io invece, nel 2002, mi sono fatto un marchio e lo produco. Questo pistacchio fino a vent’anni fa non valeva niente, tanto che le aziende agricole ne stavano abbandonando la produzione. Adesso, per un chilo di “tignosella” certificata dop, sono disposti a pagarlo anche 10 euro al kg, cos’è che in Sicilia si può vendere a 10 euro al kg? E’ un prodotto che ci permette di resistere alla crisi, di riuscire ad andare avanti. Il costo alto? Dipende dai costi di produzione, il pistacchio si raccoglie a mano e un operaio costa 80 euro al giorno tasse comprese. Considerando, poi, che si raccoglie ogni due anni, che nell’anno di scarico di devono comunque fare potature e decespugliamento sempre a mano perché siamo un’azienda biologica, si capisce bene che non converrebbe nemmeno raccoglierlo se si vendesse ad un prezzo inferiore». Quest’anno la produzione di pistacchio ha subito un decremento del 20/30 per cento a causa della siccità. «Ma ce lo aspettavamo – sostiene Andrea porto, 31 anni, titolare di una storica azienda, l’Agricola Fernandez che produce pistacchio da generazioni – il pistacchio é una produzione agricola e in agricoltura i cambiamenti climatici rendono sempre incerta la produzione, ma il pistacchio di Bronte non conosce crisi perché non ha concorrenza, le sue proprietà organolettiche sono uniche e non riproducibili, vengono solo da questo tipo di territorio». Porto, alla guida dell’azienda da due anni, è uno di quei giovani che hanno scelto l’agricoltura 2.0 (in Sicilia siamo lontanissimi dal 4.0 di cui si parla) nel loro futuro.
«Nella mia vita avevo sempre pensato ad altro – ricorda – ho studiato economia ed ero un grande appassionato di finanza. Immaginavo che avrei avuto a che fare con titoli e indici di borsa, poi ho pensato di utilizzare i miei studi per rivoluzionare l’azienda e portare la cultura imprenditoriale in agricoltura. Ci sono tanti giovani che hanno scelto questa strada e la direzione è quella giusta, il problema è che il “sistema” si deve svecchiare. In Sicilia c’è ancora l’idea che il proprietario di un’azienda agricola resti alle redini fino alla morte e quindi spesso le iniziative dei giovani sono prese sotto gamba. Purtroppo difficilmente si tende alla condivisione e, invece, secondo me, la collaborazione tra aziende è fondamentale». Un lavoro di rete auspicato anche in questo campo che, però, nel caso della produzione di pistacchio a Bronte, diventa difficile per l’estrema parcellizzazione del territorio. Sono poche le grandi aziende del pistacchio (quella di Porto produce 200mila kg ndr) la cui mappa di produzione è disegnata da un patchwork di tante piccole proprietà che raccoglie complessivamente circa 50mila ettari di pistacchieti. Questa polverizzazione del mercato – il 75% del territorio è rappresentato proprio da piccole realtà a conduzione familiare – non rende il prezzo stabile. Eppure la ricchezza di Bronte non è tanto legata al prezzo dei suoi preziosi “chicchi” quanto alla capacità di rendere affascinante agli occhi dei visitatori il territorio in cui si produce. «Gli stranieri – afferma Porto – lo conoscono di più degli italiani, ma c’è ancora molto da lavorare sul fronte della comunicazione. In paese si organizza la sagra, ma quasi nessuno visita la campagna di Bronte per vedere com’è fatto un albero di pistacchio. Invece, chi viene qui dovrebbe essere indotto a toccare con mano tutta la filiera, dalla terra al barattolo di pesto confezionato. Da questo punto di vista s‘è perso anche troppo tempo. Una via del pistacchio? Sarebbe bellissimo, ma ci vuole una coesione territoriale che, al momento non vedo. Se dovessi pensare ai prossimi trent’anni, immagino una grande cooperativa che gestisca il marchio “Pistacchio di Bronte dop” e un prezzo stabile del prodotto definito a monte. Le possibilità ci sono, ma soprattutto c’è il prodotto. In Sicilia abbiamo i prodotti migliori del mondo,
e lo dico con arroganza, però non riusciamo ancora a gestirli nel mondo giusto e il pistacchio è uno di questi». Cermen Greco Fonte “La Sicilia” del 18-09-2017