Per l’Antimafia siciliana l’attentato fallito contro Giuseppe Antoci, la notte tra il 17 e il 18 maggio di tre anni fa, fu più una messa in scena – cioè una «simulazione» di cui la vittima fu «strumento inconsapevole» – che un agguato mafioso. La commissione non scarta neppure l’atto dimostrativo orchestrato per mettere paura all’allora presidente del Parco dei Nebrodi che si batteva contro la mafia dei pascoli: ma comunque tra le tre ipotesi, che per l’Antimafia rimangono valide, la «meno plausibile» è che si sia trattato di un attacco di Cosa nostra. In tutti e tre le ipotesi, comunque, Antoci è per l’Antimafia una vittima. A questa conclusione sono giunti i deputati della commissione, guidata dal presidente Claudio Fava, dopo cinque mesi di audizioni, e dopo aver ascoltato investigatori, amministratori, magistrati, giornalisti e acquisito le carte dell’inchiesta della Procura di Messina che chiese e ottenne dal gip l’archiviazione per i presunti autori dell’attentato. Fava, dopo l’approvazione (all’unanimità) della relazione ha detto: «L’ipotesi più plausibile è quella della simulazione», chiedendo la riapertura delle indagini per «un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità». Antoci stava andando a casa a Santo Stefano di Camastra (Messina), dopo un incontro a Cesarò, quando la sua auto blindata (aveva una scorta di terzo livello) venne bloccata lungo la strada da alcuni massi e vennero sparati alcuni colpi di fucile contro la vettura da persone (non è chiaro quante fossero) che poi riuscirono a scappare. L’ex presidente del parco dei Nebrodi, che è stato responsabile legalità del Pd e ora è tornato a fare il bancario, aveva attuato un protocollo di legalità nel parco dei Nebrodi poi allargato a tutta la Sicilia e quindi diventato legge nazionale. L’Antimafia «più che esprimere conclusioni certe e definitive» dà atto «delle molte domande rimaste senza risposta, delle contraddizioni emerse e non risolte, delle testimonianze divergenti, delle criticità investigative registrate».
Dopo le audizioni – avendo analizzato le testimonianze, letto gli atti dei pm e il decreto di archiviazione dell’inchiesta che riguardava all’inizio 14 indagati – la Commissione critica le indagini, le procedure operative della scorta subito dopo l’agguato, mette in dubbio testimonianze di esponenti delle forze dell’ordine, ritenendo non comprensibili alcuni comportamenti come quelli del vicequestore aggiunto Daniele Manganaro che sarebbe arrivato sul luogo dell’attentato poco dopo l’esplosione dei colpi di fucile, sventandolo. Viene citata anche la testimonianza del sindaco di Cesarò, Salvatore Calì, che ricorda che dopo una sua prima dichiarazione sull’agguato secondo cui si trattava di «delinquenza locale» ricevette le telefonate di Antoci e dell’ex senatore Beppe Lumia che lo spinsero a fare una smentita per affermare che si era trattato di un attentato mafioso.
I “BUCHI”DI QUELLA NOTTE: «ANOMALIE FRA CONTRADDIZIONI E INCONGRUENZE» A pagina 63 dell’inchiesta dell’Antimafia si legge: «Ma com’è possibile che di fronte a quello che lo stesso Antoci descrive come “uno degli attentati più studiati nella storia degli attentati di mafia, non ce n’è uno di più…”, si affidi l’indagine soltanto alla squadra mobile di Messina e a un commissariato di zona? Come se dopo il fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone la delega alle indagini fosse stata affidata al commissariato palermitano di Mondello». Veniamo subito al punto. Il valore della relazione del presidente Claudio Fava (votata all’unanimità) è il non volersi accontentare di verità da hard discount. Affrontando, senza tesi preconfezionate, «domande rimaste senza risposta», «contraddizioni emerse e non risolte», «testimonianze divergenti», «criticità investigative registrate». Non con chiacchierate da Bar dello Sport sui Nebrodi. Montagne di carte giudiziarie e una ventina di audizioni. Con l’ausilio di due consulenti del calibro di Bruno De Marco (ex presidente del Tribunale di Catania) e soprattutto, in quest’istruttoria, di Tuccio Pappalardo (ex direttore nazionale Dia e questore a Palermo e Messina), che ha fatto pesare l’esperienza di super “sbirro” anche nelle audizioni di chi ha investigato sul caso Antoci. Quali sono i «vuoti di verità» di cui parla Fava? Nell’atteggiamento della scorta di Giuseppe Antoci, innanzitutto. «Non è plausibile – scrive la commissione – che quasi tutte le procedure operative per l’equipaggio di una scorta di terzo livello, qual era quella di Antoci, siano state violate (l’auto blindata abbandonata, la personalità scortata esposta al rischio del fuoco nemico, la fuga su un’auto non blindata, l’aver lasciato due agenti sul posto esposti a una reazione degli aggressori…)». E perché la “Thesis” blindata non provò a superare i massi, come da protocollo? «Non ci ho provato… purtroppo con quella macchina (d’esperienza) ne avevo poca…», si giustifica l’autista, l’agente Sebastano Proto.
A proposito: «Non si comprende la ragione per cui al gabinetto della polizia scientifica di Roma, tra i vari quesiti sottoposti, non sia stato chiesto – si legge nella relazione – di valutare se la Thesis blindata di Antoci avrebbe potuto o meno superare il “blocco” delle pietre poste sulla carreggiata (e soprattutto quanto tempo e quante persone occorressero per posizionare quelle pietre)» E poi i dubbi sulla dinamica. Per la commissione «non è plausibile» che gli attentatori «non aprano il fuoco sui due poliziotti sopraggiunti al momento dell’attentato», né che «sui 35 chilometri di statale a disposizione tra Cesarò e San Fratello, il presunto commando mafioso scelga di organizzare l’attentato proprio a due chilometri dal rifugio della forestale, presidiato anche di notte da personale armato».
Un capitolo a parte viene dedicato all’ex commissario di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro. Per l’Antimafia è «non comprensibile» il perché, all’inizio della serata, Manganaro non avvisi la scorta di Antoci dei suoi timori sulla presenza di «vedette mafiose» nel ristorante dove avevano cenato a Cesarò. «Per non agitarli»; sostiene. «Salvo poi – si annota nella relazione – cercare di raggiungerli temendo che potesse accadere qualcosa senza nemmeno tentare di mettersi in contatto telefonico con loro». Per Giuseppe Lo Porto, ex comandante della stazione carabinieri di Cesarò, le “vedette mafiose” erano «tutte persone che al massimo possono rubare qualche vitello». Per la commissione «è censurabile» che Manganaro abbia offerto su alcuni punti versioni diverse da quelle che aveva fornito ai pm in sede di sommarie informazioni». Nella relazione anche le “contro-indagini” di Mario Ceraolo, ex dirigente del commissariato di Barcellona. Il primo a segnalare i dubbi sulle dichiarazioni di Manganaro e del collega Granata, raccontando di colloqui con i due nei giorni successivi all’agguato dai contenuti diversi da quelle consegnate ai pm di Messina. Ma Ceraolo, che Manganaro considera un nemico per motivi di carriera, non avrebbe agito per conto suo. Rivela di aver ricevuto «un incarico informale» dall’allora procuratore di Messina Guido Lo Forte davanti all’ex questore Giuseppe Cucchiara. Circostanza smentita da Angelo Cavallo, all’epoca pm a Messina, oggi procuratore di Patti.
«BASITO» (E FURIOSO) L’EX PRESIDENTE DEL PARCO DEI NEBRODI «FU UN ATTENTATO COME QUELLO CHE HA UCCISO IN COLOMBIA». Rimango basito di come una commissione, che solo dopo tre anni si occupa di quanto mi è accaduto, possa arrivare a sminuire il lavoro certosino e meticoloso che per ben due anni la Dda di Messina e le forze dell’ordine hanno portato avanti senza sosta, ricostruendo gli accadimenti con tecniche avanzatissime della Polizia scientifica di Roma». Lo dice l’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, dopo la relazione dell’Antimafia. Per Antoci «una pagina buia, vergognosa, quella scritta dall’Antimafia siciliana. Danno credito a persone che non portano prove. Io difendo i magistrati e le forze dell’ordine. È proprio di questi giorni l’agguato in Colombia contro la candidata sindaco di Suarez anch’essa bloccata con l’auto blindata colpita da fucilate e poi bruciata. Morti lei e gli uomini della scorta. Stessa tecnica utilizzata sui Nebrodi per l’attentato a me». «Non si fa politica giocando con la vita delle persone, dando spunti a delegittimatori e mascariatori. Bisogna essere rigorosi e cauti, ci va di mezzo la sicurezza e la vita della gente. Ma purtroppo, passando il tempo – dice Antoci – le cose pare si dimentichino e io non pensavo che proprio Claudio Fava dimenticasse ciò che è stato detto e fatto contro suo padre e il mascariamento che ha subìto quando tutto veniva sminuito e legato a fatti personali e non alla mafia».
«No comment» di Fava sulla frase in questione. «Antoci gli spari li ha subiti ed è stato la vittima inconsapevole di un attentato», peri deputati M5S Antonio De Luca e Roberta Schillaci, componenti dell’Antimafia, che chiedono «la riapertura delle indagini sulla morte dei due poliziotti , Todaro e Granata». «La relazione, approvata all’unanimità dei componenti, ha un valore enorme», sostiene Nicola D’Agostino (Sicilia Futura), che rivendica i «risultati» che «aprono scenari chiari» e «serietà e coraggio» dell’Antimafia. «Oggi siamo stati scomodi, ma con l’obiettivo di cercare la verità, senza conformismo» su «una vicenda troppo presto chiusa in un senso e che invece veniva accompagnata da sorrisi e mezze parole». «Attendiamo con serenità le critiche, ma respingeremo con la forza della serietà che ci contraddistingue aggressioni e minacce». Mario Barresi Fonte “La Sicilia” del 03-10-2019