Sarà l’esame del Dna, disposto dalla Procura di Catania, a sciogliere i dubbi sull’identità del corpo trovato, a settembre scorso, in una grotta alle pendici dell’Etna. Gli accertamenti sono stati delegati dopo la segnalazione fatta dalla figlia del giornalista Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970 a Palermo. La donna ha letto del ritrovamento del cadavere non identificato la cui morte, secondo i primi rilievi, risalirebbe agli anni ‘70 e ha chiamato gli inquirenti chiedendo una verifica scientifica che dia risposte certe sull’appartenenza dei resti. Oltre all’epoca del decesso a sollecitare l’attenzione di Franca De Mauro è che l’uomo ritrovato presenta, come suo padre, segni di frattura sul naso e malformazioni alla bocca. Una casualità o la soluzione del giallo? Nell’attesa dell’esame del Dna alcuni elementi sembrerebbero escludere, però, che il cadavere appartenga al cronista. Accanto al corpo è stata trovata una pagina del quotidiano La Sicilia del 1978, cioè di 8 anni dopo la scomparsa di De Mauro. E al 1977 risalirebbero le monete scoperte sempre sul luogo di ritrovamento dei resti. La De Mauro, almeno al momento, però, non ha riconosciuto alcun oggetto scoperto nella grotta: né i brandelli di vestiti, né il pettine che era in una delle tasche dei pantaloni. De Mauro non era solito portare pettini. Quello della scomparsa del giornalista è un mistero lungo 50 anni: è ormai definitiva la sentenza che ha assolto dai reati di omicidio e occultamento del cadavere il boss Totò Riina.
I giudici, nella sentenza che scagionò il capo dei capi di Cosa nostra, ipotizzarono che dietro la scomparsa di De Mauro ci fosse la morte di Enrico Mattei. «Si era spinto troppo oltre nella sua ricerca sulle ultime ore del presidente dell’Eni in Sicilia», scrisse la corte d’assise. Il cronista, che lavorava al film di Rosi «Il caso Mattei», spiegarono i giudici, sarebbe giunto troppo vicino a scoprire la verità non soltanto sul sabotaggio dell’aereo, ipotesi della quale era stato del resto sempre convinto e che, se provata, avrebbe avuto effetti devastanti per i precari equilibri politici generali in un Paese attanagliato da fermenti eversivi e un quadro politico asfittico, ma anche sull’identità dei mandanti. Un terribile segreto che De Mauro avrebbe pagato con la vita. A fare “il lavoro” sarebbe stata Cosa nostra: ma non quella di Totò Riina, bensì quella di Stefano Bontade, Giuseppe Di Cristina e don Tano Badalamenti che all’epoca avevano un potere e un controllo del territorio tali da poter organizzare un delitto eccellente senza la complicità dei corleonesi. Tutti i protagonisti sono morti. E in un’aula di tribunale non ci sono mai stati condannati. Fonte “La Sicilia” del 12-11-2021