Negli ultimi anni, in conseguenza dell’allungamento della vita media degli italiani e di una società che rivaluta il prendersi cura di sé, alla geriatria viene data sempre più importanza. Della salute degli anziani, della loro coscienza di ciò e del loro rapporto con la società abbiamo parlato con il dott. Gesuele Sciacca, incontrato nel Presidio ospedaliero di Randazzo, dove è direttore dell’Unità di geriatria. Dottore Sciacca, cosa intendiamo oggi per “qualità della vita” riferita ai cosiddetti anziani? «Poter vivere con una certa autonomia e armonia da un punto di vista psichico, fisico e sociale. Per un anziano, vivere non è l’equivalente di invecchiare bene. Per invecchiare bene è necessario uno stile di vita buono che deve nascere con noi e non quando il nostro corpo lancia segnali di sofferenza, perché allora diventa difficile cambiarlo e alle volte può anche essere tardi. Il benessere dell’individuo non è correlato solo alla presenza o no di malattie, ma è l’indicatore degli interventi messi in atto durante il percorso di vita».
Quali consigli dà ai suoi pazienti per vivere meglio e, possibilmente, bene? «Intanto, una buona alimentazione, per prevenire molte patologie; esistono precisi atteggiamenti psico-fisici che possono favorire la malattia: un consumo esagerato di carboidrati, di grassi di origine animale asseconda patologie come l’ipertensione, il diabete, le ematopatie, i problemi vascolari e da qui si può facilmente arrivare a malattie consequenziali come l’infarto, l’ictus cerebrale, l’insufficienza renale». «Poi, stimolare la mente con ciò che ci piace in modo tale che, a cascata, la condizione di vitalità venutasi a creare si ripercuote su tutto l’organismo, attraverso un meccanismo che è psico-neuro-endocrino e anche immunitario; e naturalmente l’attività fisica. L’educazione alla salute dovrebbe cominciare a casa e poi a scuola». Si può definire, oggi, una persona come appartenente a un’età solo in base agli anni che ha? «Distinguo due età, quella anagrafica e quella biologica. Ci sono età biologiche che non corrispondono per niente a quella anagrafica. Ho pazienti 80enni che hanno un aspetto molto giovanile e una vita dinamica, guidano, viaggiano».
Nel corso della sua attività professionale ha riscontrato un aumentato ricorso allo specialista geriatra? «Sì. Ma non perché ne hanno più bisogno rispetto alle epoche precedenti, bensì perché hanno maggiore consapevolezza del proprio corpo e quindi l’esigenza di effettuare accertamenti e praticare le relative cure». Qual è il rapporto tra gli “anziani” e la società? Oggi chi è avanti con l’età partecipa attivamente alla vita sociale? «Ci sono anziani che hanno raggiunto un certo livello professionale e diventano ancora più preziosi per sé stessi e per gli altri; altri, invece, non riescono a reinventarsi e si sentono inutili. Inoltre, il ruolo dell’anziano nella società è cambiato. Quando la famiglia era organizzata in maniera piramidale, il nonno era colui che, con la sua bacchetta magica, tirava fuori dal cilindro inestimabili storie che fungevano da aneddoto; oggi, invece, per una serie di cambianti sociali, crisi demografica, emigrazioni dei figli, famiglie allargate, la funzione del nonno viene meno, tanto che egli viene visto come un portatore di un sapere “vecchio”». Qual è la malattia più diffusa tra gli anziani? «In senso quantitativo le patologie dismetaboliche, come il diabete, la dislipidemia (aumento dei grassi nel sangue) e l’ipertensione. Quelle che determinano più mortalità, invece, sono le malattie cardiocircolatorie, come l’infarto, seguite dai tumori».
E le malattie più temute? «I tumori e l’infarto». E la malattia magari nascosta ovvero silente, più pericolosa? «L’ipertensione, per es., che può restare latente per tanto tempo e, quando si manifesta ha creato già danni non indifferenti». E’ vero che tanti “anziani” cadono in depressione e non se ne accorgono? «Sì; accade spesso. L’individuo non riesce a dare più un senso alla sua vita per poi sprofondare sempre più nella convinzione di inadeguatezza. Si vive il tempo che scorre senza un senso e così il condizionamento mentale è enorme, quindi il passo verso la depressione vera e propria è breve». Come gestisce il rapporto medicopaziente? «Con la crescita dell’esperienza prevale l’uomo, non la malattia. Vedere i pazienti implorare di morire e non poterli aiutare è tremendo; ciò suscita reazioni importanti nel medico. Aumenta la consapevolezza di ciò che siamo, la nostra fragilità, la nostra vita, il porsi tante domande. L’unica certezza è che non c’è certezza: è il mistero della vita». Maria Pia Risa Fonte “La Sicilia” del 14-09-2019