La sera del 22 gennaio 1993, nelle campagne di Randazzo, alle falde dell’Etna, Antonio Spartà, 57 anni e i suoi due figli, Pietro Vincenzo di 26 e Salvatore di 19, furono uccisi a fucilate nell’ovile in cui lavoravano. Gli Spartà morirono per aver detto “no” al pagamento del pizzo e soprattutto per essersi rifiutati di accettare di piegarsi alle “regole” della famiglia mafiosa del paese, quella dei Sangani. Trent’anni fa Rita Spartà, donna coraggio, aveva 27 anni, sua madre 75 e la sorella più piccola 52: non ha mai smesso di lottare contro la mafia. «Di loro mi manca quell’amore immenso che avevo ricevuto…»: inizia così il racconto di Rita. Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale? «È rimasto sempre quel dolore che è cominciato quella maledetta sera, un dolore sempre presente. Sono rimaste la paura e la disperazione. Ma tante cose sono cambiate, la gente è migliorata nel mio paese, lo vedo negli occhi e nei sorrisi che mi rivolgono quando sono per strada. Trent’anni fa non era così, è cambiato il loro modo di guardarmi, di apprezzarmi e di stimarmi. E quando lo chiamo il “mio paese” non è per un senso di proprietà, ma di appartenenza. Gli inetti, la gentucola c’è sempre dappertutto, ma quella non voglio neanche combatterla. Quella gente che in tutti questi anni si è sempre chiesta, ma questa cosa vuole?» Qual è oggi il suo rapporto con lo Stato? «A conti fatti l’ergastolo ostativo lo abbiamo avuto io, mia madre e mia sorella.
Siamo state condannate dallo Stato che ha liberato (Oliviero Sangani, unico condannato all’ergastolo e scarcerato, ndr) senza avere rispetto per le vittime e per chi è rimasto a combattere la mafia. Lo Stato deve badare bene quando libera qualcuno. Loro (i mafiosi, ndr) respirano il mio ossigeno, la mia aria, me la tolgono. Di contro oggi le forze dell’ordine sono i miei compagni di viaggio, sono al mio fianco, mostrano un senso di rispetto verso di me. Doveva essere così 30 anni fa…». La vostra storia è anche quella di tre donne rimaste sole… «Sì, con tutti i problemi che comporta. Noi tre abbiamo portato avanti la carretta. E io ho fatto la portavoce di mia madre e di mia sorella, perché si sono fidate di me e hanno visto la mia paura trasformarsi in rabbia. Nel 1993 nessuna di noi lavorava. Io ero un’allieva, prestavo servizio come infermiera, ma non mi pagavano come mi pagano adesso. Frequentavo un corso e avevo solo una piccola diaria giornaliera perché facevo tirocinio. Ci siamo dovute reinventare, facendo mille lavori per poterci mantenere per pagare anche gli avvocati. E il mio legale, le assicuro, non ci ha mai chiesto un centesimo, quando avevamo difficoltà economiche. È stato un fratello maggiore che ha avuto rispetto della mia, della nostra disperazione.
Abbiamo lottato contro i pregiudizi e contro quel sistema, mafioso, che si era creato a Randazzo: la solitudine, il fatto di essere noi sotto accusa e non chi aveva ucciso». I mafiosi avranno mai il suo perdono? «Mai. Io non aspiro alla santità. Io non voglio essere una santa. Loro non hanno bisogno del mio perdono perché sono privi di umanità, sono delle belve. Io non perdonerò mai. E se domani dovesse venire Dio e mi dicesse “Tu perdonali che io te li faccio incontrare”, io gli risponderei “Dio io ti ringrazio, ma dopo il calvario che mi hai fatto subire non li perdonerò mai. Prenditi la mia vita e fai tornare loro”. Ho pianto tanto in questi giorni ascoltando le parole del padre del poliziotto Nino Agostino, anche lui cerca la verità. Io continuo, non perdono, ma continuo a esistere per lottare contro la mafia, come fosse sempre quel 22 gennaio 1993…». Francesca Aglieri Fonte “La Sicilia” del 22-01-2023