Quando il comitato degli alti funzionari della Cemat (Conferenza dei Ministri responsabili della pianificazione del territorio del Consiglio d’Europa), fecero scrivere la “Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale”, sapevano che la politica aveva l’obbligo di richiamare l’attenzione sulla ricchezza spesso sottovalutata di questo patrimonio. L’imperativo non era soltanto difenderlo e salvaguardarlo, ma anche suggerire opportune misure per uno sviluppo sostenibile che tutelasse un patrimonio fatto non solo di ambiente, ma anche di quei manufatti che ci testimoniano le particolari relazioni che l’uomo ha instaurato nel corso della sua storia con un territorio. Manufatti che sull’Etna sono facili da identificare. Basta girarsi attorno; oppure leggere la sezione dedicata a “l’Ambiente ed il territorio” pubblicata sul sito istituzionale del Parco dell’Etna, dove spicca questa frase: «La presenza dell’uomo sul vulcano ha lasciato un’impronta profonda: monumentali opere di terrazzamento, magazzini, palmenti, cantine costellano le pendici della Montagna». Opere che costituiscono il paesaggio rurale, che però a detta di tanti oggi è fortemente a rischio. Se ci si addentra all’interno della campagna non è difficile, infatti, scorgere vecchi rustici, palmenti e case coloniche ridotti a miseri ruderi, dove appena i muri in pietra lavica resistono all’interno di una campagna abbandonata a se stessa, perché l’uomo ha smesso da decenni a lasciare la sua impronta. Certo, è vero che all’abbandono della campagna negli anni ha contribuito la crisi dei prodotti agricoli, di cui un tempo questo territorio era ricco, com’è vero che spesso la mano dell’uomo ha bisogno di essere opportunamente guidata per evitare scempi del territorio, ma oggi c’è un altro pericolo che sta minacciando la salvaguardia del patrimonio rurale.
A denunciarlo è il dott. Filippo Bertolo, agronomo che da sempre opera a Randazzo e nel versante nord dell’Etna. Profondo conoscitore dell’ambiente e del territorio, lancia l’allarme su un fenomeno che considera grave. A causa dell’equiparazione dei fabbricati rurali a quelli del centro urbano che implica il pagamento di tasse ed imposte, molti preferiscono dichiarare il rustico “collabente”. E per essere “collabente” l’immobile bisogna che crolli il tetto. Magari non sarà il caso delle foto a fianco, ma Bertolo lo fa capire chiaramente: «Un tempo in ogni piccola vigna esisteva un fabbricato rurale al servizio del contadino. Casolari semplici, costruiti in pietra lavica, magari anche piccoli ma dal grande valore paesaggistico perché testimoniano il nostro passato e costituiscono parte del patrimonio rurale del territorio. Tutti questi piccoli fabbricati sono censiti all’ex catasto dei terreni (oggi Agenzia delle Entrate) con la dicitura “fabbricati rurali” che non implicano rendita catastale. Una norma di qualche anno fa ha imposto il passaggio di questi casolari nell’elenco dei fabbricati urbani, con l’attribuzione di una rendita. Questo obbliga i proprietari a pagare per questi casolari delle tasse come la Tari o l’Imu. Per questo qualche proprietario per evitare il balzello fa istanza per inserire l’immobile fra le “unità collabenti” che non pagano nulla. Solo che il requisito per inserire il fabbricato in questo elenco è che almeno non abbia il tetto. Detto ciò le conseguenze sono semplici: diversi proprietari preferiscono favorire il crollo del tetto pur di non pagare le tasse, distruggendo una testimonianza di storia e facendo un danno al patrimonio storico non indifferente».
Per il dott. Bertolo i proprietari quasi non hanno scelta. Sono in possesso di un appezzamento di terreno che difficilmente potranno mettere a reddito ed un fabbricato che altrettanto difficilmente potranno utilizzare anche a causa di inspiegabili norme, lacci e lacciuoli che, nei fatti, impediscono qualsiasi tipo di ampliamento del per realizzarvi anche dei piccoli servizi, neanche nel rispetto dell’ambiente. Ed allora deve decidere o pagare delle tasse per un patrimonio che non utilizzerà mai o distruggerlo. «Si può dire ciò che si vuole – spiega Bertolo – ma è necessario un intervento normativo. Bisogna costituire una categoria nuova per accatastare questi fabbricati che raccontano la storia dei nostri avi, una categoria che non attribuisce reddito». Inoltre sono in tanti a pensare che chi si batte per la salvaguardia dell’ambiente e del territorio dovrebbe favorire il recupero di questi fabbricati nel rispetto dell’ambiente e della loro storia. Randazzo si trova fra 3 parchi che hanno lo scopo di salvaguardare ambiente, storia e patrimonio rurale. Se si continua così i nostri figli erediteranno un territorio senza passato. Gaetano Guidotto Fonte “La Sicilia” del 15-07-2019
Voglio complimentarmi con il Dott. Bertolo per aver evidenziato la miopia dei ns. Legislatori che pur di fare cassa non vedono la catastrofe che creano. E’ vero, abbiamo distrutto un patrimonio inestimanile di piccoli fabbricati in pietra, che erano la storia di lavoro e sacrificio del popolo etneo.
Auspico che qualche politico locale raccolga questo grido di allarme e riesca a promulgare una legge che possa sanare questo orrore.