Ventinove anni, dieci mesi e nove giorni. Non ha mai smesso di contare il tempo che è passato Rita Spartà, donna-coraggio e vittima dello strapotere mafioso del clan dei Sangani. Nel gennaio del 1993 la mafia le uccise il padre Antonio, 57 anni e i fratelli Pietro Vincenzo di 26 e Salvatore di 19. Furono massacrati in un ovile perché si erano ribellati. A distanza di quasi due settimane dall’operazione antimafia che ha fatto terra bruciata (da qui prende il nome l’inchiesta) intorno al clan, a Randazzo qualcosa è cambiato. Rita ha pagato un prezzo altissimo, ma non si è mai rassegnata. «Ho 57 anni e più della metà della mia vita l’ho trascorsa a lottare contro la mafia e a disperarmi, a distruggermi insieme con mia madre e mia sorella…». Inizia così il racconto di Rita a La Sicilia. «Respiriamo finalmente un’aria più fresca. Io esco e non vedo più quelle facce (del clan, ndr) che mi guardano, che mi osservano come è accaduto in tutti questi anni. Noi potevamo anche fare finta di niente, perché i miei familiari erano stati uccisi, potevamo scegliere di restare in silenzio e invece abbiamo scelto di ribellarci. Perché quelli che loro hanno ucciso erano mio padre e i miei fratelli. Che giustizia ci sarebbe stata se io o se mia madre ci fossimo girate dall’altra parte? Io lo rifarei un miliardo di volte ancora. E le posso assicurare che ho passato le pene dell’inferno in tutto questo tempo. Mi sono ritrovata senza un padre, senza i miei fratelli, senza una famiglia, con la disperazione, il dolore, la paura e l’isolamento.
Lo Stato assente perché ha sempre fatto orecchio da mercante, fino ad arrivare al 2021 quando sono stata io condannata alla fine della pena mai, che si chiama ergastolo ostativo. Perché io non potrò mai uscire dal carcere del mio dolore e dalla paura, con la scarcerazione dell’unico condannato all’ergastolo. Io ho sudato sette milioni di camice, non sette: Cassazione, Corte d’Assise, revisione del processo e poi ancora Cassazione. Giornate trascorse in Procura con la speranza che lui (Oliviero Sangani, ndr) scontasse almeno 30 anni. Invece, il 16 aprile del 2021, rientra a Randazzo, viene a trovarmi e mi sputa. Perché io l’ho chiamato assassino. E mi minaccia che farò una brutta fine, ma io sono ancora qui. A loro è andata male. Non può togliermi più nulla, mi ha tolto la gioia di vivere e di invecchiare con i miei cari». Le lacrime, nonostante il tempo sia passato, solcano ancora il volto di Rita, che lancia un appello. «Riprendiamoci il nostro paese. Se ci teniamo ai nostri figli, alle nostre madri, al nostro territorio, usciamo fuori, riprendiamoci le nostre vite e denunciamo il malaffare. È una strada tortuosa, ma va intrapresa…». Dopo gli arresti dello scorso 26 ottobre con il blitz dei militari dell’Arma, adesso c’è voglia di riscatto per non piegare più la testa.
«Affiliati e gregari – spiega il capitano Luca D’Ambrosio, comandante della Compagnia carabinieri di Randazzo – hanno occupato per troppo tempo i punti di riferimento della città. E’ stato difficile disinnescare un sistema mafioso così pervasivo, ma ci siamo riusciti. Per questo invitiamo a denunciare, perché in questo paese è ritornata la legalità». L’in – vito a non tacere arriva anche da Giuseppe Scandurra, vice presidente nazionale anti-racket della “Rete per la legalità”. «Abbiamo bisogno che altri imprenditori abbiano il coraggio e l’intelligenza per capire che stare dalla parte dello Stato è vincente. La denuncia è un fatto straordinario e importante. Non per niente in questi ultimi mesi nel territorio di Belpasso Paternò e Catania abbiamo dieci imprenditori che hanno deciso di collaborare. Vorremmo che anche a Randazzo ci fosse questa svolta». Francesca Aglieri Rinelli Fonte “La Sicilia” del 04-11-2022